novembre 2005
Caso Benetton: polemica per la restituzione di terre mapuche.
Verranno restituite, ma i mapuche dovranno elaborare progetti produttivi
articolo di Carlos Guajardo/[email protected]
tratto da Anarcotico
mapucheIl gruppo italiano Benetton ha donato al governo della provincia argentina del Chubut 7.500 ettari, affinché siano destinati alle comunità aborigene locali. La decisione ha già suscitato polemiche nella provincia.
L’intenzione della multinazionale -che sarà resa effettiva nel gennaio 2006- è quella di "realizzare un progetto sostenibile a beneficio delle famiglie aborigene della regione", con le quali il gruppo ha avuto innumerevoli conflitti.
Gli italiani hanno inoltre informato sull’apertura di un sito online (benettontalk.com) che pretende essere un foro di discussione tra i giovani "su un tema di attualità come è quello della terra degli aborigeni".
La decisione dei Benetton è stata presa nella provincia come un gesto di avvicinamento; avviene a pochi mesi dall’installazione di una conceria nella città di Trelew per la quale investiranno 10 milioni di dollari. Ma non attenua il conflitto. La deputata provinciale Rosa Chiquichano, discendente diretta di mapuche, ha affermato: "i Benetton non possono donare qualcosa che ad essi non appartiene".
I 7.500 ettari sono stati donati ad una condizione: che gli aborigeni elaborino progetti produttivi per lavorarli. Si trovano a 50 chilometri dalla località di Gualjaina ed a 150 da Esquel. La terra è idonea sia per l’agricoltura che per l’allevamento e dispone di un corso d’acqua.L’ultimo conflitto dei Benetton nel Chubut si è verificato con la famiglia di Rosa Curiñanco e Atilio Nahuelquir. Entrambi avevano occupato un lotto di 550 ettari a Santa Rosa, nei pressi della estancia Leleque, di proprietà del gruppo. Da lì vennero sgomberati per mezzo di una sentenza. La situazione ha portato all’intervento del premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel.
Assieme alla famiglia, Esquivel si è recato a Roma e si è incontrato con membri della multinazionale. I Benetton hanno offerto la donazione di terre, ma essa è stata rifiutata.
I colori uniti dello sfruttamento
Quando lo scorso anno decidemmo di diffondere sul nostro territorio il comunicato del gruppo anarchico argentino "Aukache", sulla colonizzazione patagonica da parte del gruppo Benetton, non immaginavamo affatto gli sviluppi di questa campagna contro la multinazionale italiana. Per la prima volta si è riusciti ad intaccare, con i fatti, l’immagine a cui tanto tiene. Non più, come nel passato, pubbliche denunce contro la così detta "pubblicità shock" che solo servivano ad amplificare a dismisura l’obiettivo unico del gruppo veneto: il profitto. No, questa volta sono venute alla luce tutte le odiose caratteristiche di una multinazionale, questa volta non si è potuta rifugiare nel "look progress" che la caratterizza. Non tutto è merito nostro, ci mancherebbe ma una sequela di circostanze, dei compagni di strada e la nostra caparbietà hanno dato il risultato sperato.
Premettiamo, da subito, che non c’è molto da gioire. Benetton, così come le altre multinazionali, continua ad esistere e ad ingigantirsi con investimenti nei settori più svariati. Il riquadro che riportiamo risale al 1997. Da allora ha fatto degli enormi "progressi" (dal suo punto di vista) tentando di entrare nel mondo delle telecomunicazioni, aumentando la presenza nella grande distribuzione e acquisendo enormi aree dismesse (ferroviarie o aeroportuali) e così via. Ma, lo ripetiamo, questo primo attacco ha dato i suoi frutti. Assieme alle denunce lanciate dall’organizzazione mapuche-tehuelche "11 de octubre", sullo sfruttamento dei "peones mapuches" nelle aziende Benetton per la produzione di lana, è scoppiato il caso Turchia.
Attraverso uno scoop giornalistico da parte de "Il Corriere della Sera" (certamente non in buona fede; noi i pennivendoli continuiamo a non amarli) si è venuti a conoscenza del sistematico sfruttamento dei bambini, spesso curdi, nella fabbrica del fornitore Benetton in Turchia. I nostri amici dell’Osservatorio Benetton hanno collegato questi due fatti a quello che da sempre è il marchio del gruppo veneto: il vero e proprio sfruttamento presente nei tanti laboratori del nostro centro-sud che lavorano a cottimo per questa e per le altre grandi firme della moda italiana. Segnaliamo le gravi carenze igieniche, il vecchio fenomeno del "fuoribusta", il licenziamento delle ragazze incinte, gli incentivi prodottivi che, in pratica, costringono le lavoratrici a turni sempre più massacranti. Il tutto sotto il ricatto di quello che Luciano Benetton chiama "decentramento produttivo", ossia il trasferimento della produzione nei paesi dell’Europa orientale, dove un lavoratore costa meno, molto meno di 100 dollari al mese.
Tutte queste denunce hanno costituito il materiale di un paio di dossier che molto hanno infastidito Luciano e compagnia. Tralasciamo le insulse farneticazioni di Oliviero Toscani, "il libertario" – come ama definirsi -, che ha la sola funzione del pagliaccio di corte, lui e tutti gli (ehm…) artisti-buffoni della "Fabrica". No, ciò che si è riusciti a mettere in discussione è, in fondo io fondo, lo stesso miracolo capitalistico del nord-est, quello che tanto piace alla sinistra alternativa. Non è un caso che lo stesso Toni Negri, quand’era ancora in Francia, arrivò a lodare lo stile Benetton e non è un caso che il "decentrarnento" si avvicina abbastanza a quelle teorizzazioni pseudo-autogestionarie care all’interno del pianeta non-profit. Il gruppo Benetton, al solito, ha reagito come in altre occasioni. Ha cercato di trarre profitto, dopo aver incassato il colpo, con un rilancio della sua immagine. In Turchia ha comprato i sindacalisti, non senza aver fatto licenziare quello che più s’era esposto, e ha avviato la "clean production", accordo di facciata per tener fuori i bambini dalla fabbrica. In Patagonia sta cercando di dividere le comunità mapuches tra di loro, con regalie varie.
Ricordiamo che il lavoro nei possedimenti del gruppo rappresenta l’unica fonte di sussistenza per questo popolo originario privato del suo territorio. Ancor più ipocrita e la campagna d’immagine avviata in Italia. Da noi ha sponsorizzato alcune organizzazioni non governative che sono andate in Albania durante la guerra nel Kosovo. Al contempo ha cercato di influenzare, diciamo pilotare, una serie di articoli su pubblicazioni attente alle violazioni dei diritti umani, lavorativi e ambientali con delle grandi menzogne. Ad esempio quella secondo la quale ha riconosciuto i diritti delle comunità mapuches, avvalorata dal coglione "quechua" di turno: "Dopo due anni di lotta, la multinazionale di Treviso ha riconosciuto i diritti di questa comunità e contribuirà economicamente a migliorare le poche infrastrutture abitative, scolastiche e sanitarie di cui dispone" (José Flores su "Erba" del marzo ’99).
L’unica cosa che i mapuches chiedono a questa e a tutte le multinazionali che li stanno sfruttando (una per tutte Endesa Espana) è di andarsene via dal loro territorio ancestrale! Noi anarchici/che della Campagna anti-Benetton (che "il Manifesto" ci ha scambiati per "indios") oltre ad appoggiare la lotta libertaria di questo popolo originario, continueremo nel nostro impegno contro tutte le multinazionali, assolutamente incompatibili con il nostro percorso rivoluzionario. Salutiamo con gioia, pertanto, l’incendio di un negozio Benetton avvenute ad Atene negli scorsi mesi, così come gli attacchi semplici e ripetibili, ai danni di due rivendite del gruppo, a Trieste. Lo stesso, registriamo con piacere l’attacco incendiario ai danni di una concessionaria FIAT a Madrid a pochi giorni dal processo di Malaga.
Hanno voluto la globalizzazione, che ne paghino le conseguenze!
Come dicono i Mapuches prima di ogni azione:
MARICHI WEU!! MARICHI WEU!! (dieci volte vinceremo)
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