13 luglio 2004
Patagonia, Mapuche contro Benetton
La famiglia trevigiana possiede immensi latifondi in Argentina. La
causa di una coppia di contadini per l’occupazione di un lotto porta
alla luce un contenzioso sociale.
di Riccardo Bocca
Quattro fratelli ricchi e famosi contro una coppia di contadini senza
terra. È questo l’imprevedibile scontro giudiziario stile Davide
e Golia a cui si è appassionata l’intera Argentina. Da una parte
la famiglia Benetton, titolare della Edizione Holding spa (capofila di società
come Autogrill, Autostrade, Grandi Stazioni e lo stesso Benetton Group),
dall’altra due rappresentanti del popolo mapuche, antica comunità
della Patagonia. La storia inizia nel 1991, quando i fratelli trevigiani
si affacciano in Argentina con una mossa eclatante: l’acquisto di tutte
le proprietà della Compañía de Tierras del Sud Argentino
S.A. Il costo dell’operazione è considerevole: 50 milioni di dollari,
ma anche il ritorno. Oggi la Compañía è proprietaria
di 900 mila ettari e i Benetton sono i primi possidenti terrieri dello
Stato. Un potere che si esprime in numeri: 16 mila bovini da macellazione,
260 mila pecore e montoni allevati, 1 milione 300 mila chili di lana esportati
ogni anno in Europa, 80 milioni di dollari investiti in attività
varie. Per questo l’edizione domenicale del quotidiano ‘La Nacion’ ha
dedicato a Luciano Benetton una copertina col titolo: ‘L’uomo che ha comprato
la Patagonia’. E sempre per questo i media hanno seguito attentamente
il processo contro la coppia mapuche. Un episodio solo in apparenza piccolo,
che sta invece avendo conseguenze politiche, sociali ed economiche.
La storia ha per protagonisti Atilio Curiñanco e Rosa Nahuelquir,
mapuche con alle spalle vite faticose. Atilio per 15 anni ha lavorato
in una fabbrica di congelamento carni, mentre Rosa ha sbarcato il lunario
come operaia tessile. Nel frattempo la coppia ha cresciuto quattro figli
a Esquel, dove sarebbero rimasti se nel febbraio 2002 la ditta di Rosa
non avesse chiuso. A quel punto i 300 pesos al mese di Atilio non bastavano
più, così la famiglia ha deciso di cambiare vita. "Ci
siamo rivolti all’Istituto autarchico di colonizzazione", raccontano,
"e abbiamo chiesto se fosse libero un lotto di 525 ettari chiamato
Santa Rosa. Volevamo una risposta scritta, ma non è mai arrivata.
Ci è stato invece detto a voce che il terreno era demaniale e inutilizzato,
dunque potevamo occuparlo".
Per
sicurezza, dicono i coniugi Curiñanco, il 23 agosto 2002 hanno
informato delle loro intenzioni anche il commissariato di Esquel. Dopodiché
si sono trasferiti sul lotto Santa Rosa, dove "abbiamo arato la terra,
creato un sistema di irrigazione, piantato ortaggi e frutta, allevato
animali e risistemato lo steccato". Giorni su giorni a spaccarsi
la schiena dalla mattina alla sera. Fino a quando, il 2 ottobre 2003,
alla porta dei Curiñanco si sono presentati 15 agenti di polizia
che li hanno sgomberati, sequestrando tutti gli attrezzi e prendendosi
pure una coppia di buoi.
Il perché è presto detto. Il 30 agosto la Compañía
de Tierras aveva denunciato i coniugi mapuche. Le accuse erano due: avere
occupato un terreno che in realtà apparteneva alla Compañía,
e averlo fatto in modo violento e occulto, abbattendo il recinto e approfittando
dell’oscurità. Ipotesi che i coniugi Curiñanco hanno sempre
rigettato, ma che sono parse convincenti al giudice delle indagini preliminari
José Oscar Colabelli. Lo stesso giudice è stato in seguito
sospeso dall’incarico per avere ordinato lo sgombero di un’altra famiglia,
rivelatosi ingiustificato. Ma intanto la causa ha fatto la sua strada,
lasciando i Curiñanco disoccupati, senza terra e alla sbarra, con
una causa penale e una civile intentate dai Benetton.
Le due sentenze di primo grado sono giunte alla fine di maggio, ma non
hanno portato pace. I Curiñanco sono stati assolti dall’accusa
di usurpazione di territorio, dal momento che non sono risultati atti
violenti o occulti. Allo stesso tempo hanno dovuto restituire il lotto
Santa Rosa alla Compañía, in quanto il giudice ha ritenuto
attendibili le fotocopie autenticate degli atti di proprietà presentati
in aula. "Bene così", commentano i portavoce della Compañía:
"Ci interessava ribadire il diritto alla proprietà, e ci siamo
riusciti. Quanto all’aspetto penale, prima del processo abbiamo avvicinato
la famiglia mapuche proponendo un accordo. Se ci restituivano il lotto
Santa Rosa avremmo ritirato la denuncia, ma non ne hanno voluto sapere".
Un
fatto, quest’ultimo, che i Curiñanco confermano, e che giustificano
con la loro voglia di pubblica verità. Una voglia rimasta identica
anche dopo la sentenza di restituzione. Delusa, la signora Rosa ha dichiarato
in pubblico che "il giudice era stato comprato dai Benetton"
(salvo poi ritrattare per sfuggire a un’altra causa). Da parte sua il
marito Atilio ha invece detto che ricorrerà in appello. Ma nel
frattempo la domanda che tutti in Argentina si sono posti è questa:
perché grandi proprietari terrieri come i Benetton, i più
grandi di tutta la nazione, si sono infilati per soli 500 ettari in una
battaglia tanto impopolare? "Una cosa è certa", commenta
Gustavo Manuel Macayo, avvocato dei Curiñanco: "Ancora una
volta non sono stati rispettati i diritti delle popolazioni indigene della
Patagonia. E ancora una volta la controparte è costituita dalla
famiglia Benetton, la quale peraltro non ha diritto di occupare quelle
terre".
In che senso? Per spiegarlo bisogna tornare indietro di un secolo, afferrando
una storia antica che dopo il caso Santa Rosa potrebbe trasformarsi in
attualissima diatriba economica. L’avvocato dei Curiñanco contesta
infatti l’atto con cui a fine Ottocento lo Stato argentino donò
a dieci latifondisti inglesi le stesse terre che sarebbero poi finite
ai Benetton. "Il presidente argentino José Félix Uriburu",
dice Macayo, "diede a ciascuno di quei signori circa 90 ettari di
terra in Patagonia. Ma per farlo ha violato le leggi del tempo. Ad esempio,
non si è rivolto all’ufficio notarile generale del governo. Non
ha rispettato il limite massimo previsto per le donazioni di 625 ettari.
E inoltre ha giustificato le donazioni con le migliorie apportate dagli
stessi inglesi nei territori: ma come si poteva parlare di migliorie nel
1896, se ancora adesso le migliorie scarseggiano?". Ora, continua
Macayo, "il problema non riguarda più solo la storia del Santa
Rosa, i Curiñanco e nemmeno i Benetton. È un’ingiustizia
nazionale, e va risolta con un’indagine che porterò al Congresso
della nazione, dove molti sono pronti a sostenermi. Se avrò ragione,
i possedimenti dei Benetton dovranno tornare a chi spettano, cioè
ai mapuche".
Logico che la Compañía de Tierras non condivida una singola
parola di questa tesi. "Abbiamo i documenti originali che provano
la totale legittimità del possesso delle terre", dice l’ufficio
stampa Benetton: "Siamo tranquilli". D’altro canto non è
la prima volta che in Patagonia i Benetton si trovano nel mirino delle
proteste. Spesso l’organizzazione mapuche 11 ottobre ha attaccato i fratelli
trevigiani, considerati "latifondisti che sfruttano terre non loro".
Di più: il portavoce Mauro Millán ha denunciato tempo fa
presunte irregolarità della Compañía de Tierras nella
gestione del personale (260 assunti, 100 nella società partecipata
Cosulan, più 340 nell’indotto). "C’è la testimonianza
di un lavoratore", ha detto, "che inizia alle quattro del mattino
e finisce quando cala il sole". La Compañía replica:
"Mai avuto significative controversie in materia di lavoro, come
dimostra l’altissima fidelizzazione del lavoro". Il che, in sostanza,
significa: nessun dipendente si è mai messo contro di noi, anche
perché "di lavoro da quelle parti ce n’è poco, e quel
poco lo dà la Compañía", come onestamente dice
l’ufficio stampa.
L’intera
controversia, ci tiene ad aggiungere la Compañía, prescinde
comunque dalla volontà dei Benetton. "I mapuche", spiega,
"considerano la Patagonia un territorio che è stato sottratto
ingiustamente nell’Ottocento e che gli spetta per diritto. Se ci attaccano,
è solo per attirare l’attenzione sulle loro questioni". Sarà.
Vero è però che i movimenti mapuche non sono gli unici ad
avercela coi Benetton. Anni fa, per dire, si è molto risentito
il comune di El Maitén, località nella provincia del Chubut
dove la Compañía possiede 47 mila 510 ettari sul totale
di 60 mila. Era stato deciso un aggiornamento del patto fiscale, l’azienda
dei Benetton si è rifiutata di coprire la differenza e solo dopo
un lungo tira e molla ha accettato di pagare 100 mila dollari. Lo stesso
ha dovuto fare con un altro Comune della zona, quello di Epuyén,
a cui ha versato 35 mila dollari.
Entrambi gli episodi sono stati ripresi dalla stampa locale e dal quotidiano
nazionale ‘El Clarín’, il quale da tempo dedica ai Benetton un’attenzione
critica. Ora sarà interessante vedere come affronterà la
nuova querelle, centrata sul rapporto tra la Compañía de
Tierras e lo Stato argentino. In più occasioni la comunità
mapuche ha criticato l’eccessiva accondiscendenza delle autorità
al potere dei Benetton, o perlomeno una certa contiguità, e stavolta
un sintomo di vicinanza c’è. A ‘L’espresso’ risulta infatti che
la Compañía partecipi alla realizzazione di un commissariato
di polizia sulla strada nazionale 40, nel cuore della Patagonia. E l’azienda
conferma: "Abbiamo messo a disposizione un casotto che già
esisteva", racconta l’ufficio stampa Benetton: "Ci ha chiesto
aiuto la polizia del Chubut, a corto di denari, e noi abbiamo contribuito".
"Un intervento mirato a presidiare sempre più i territori
mapuche", lo definisce il gruppo 11 ottobre. "Un’iniziativa
rivolta alla sicurezza stradale", ribatte la Compañía:
"L’incrocio tra la strada nazionale 40 e quella per Cholila è
sempre stato pericoloso, adesso sarà possibile controllarlo meglio".
Quale che sia la verità, la polemica descrive bene il clima. Pesante.
Un crescendo di tensione alimentato da continui attacchi e repliche. Esattamente
quello che successe quando la Compañía fu accusata di modificare
il corso dei fiumi per irrorare meglio i suoi pascoli, provocando danni
all’ambiente. Su questa ipotesi è stata aperta dalle autorità
un’inchiesta, dedicata in particolare alla deviazione del rio Chubut.
E sempre i fiumi sono stati al centro di un’altra contestazione, stavolta
a opera di Enrique Cleri, presidente della Cámara de prestadores
de servicios turísticos del Chubut occidentale, il quale si è
opposto al fatto che l’accesso ai corsi d’acqua nelle tenute Benetton
fosse regolato da cancelli e lucchetti: "È profondamente ingiusto",
ha protestato: "Ci stanno rubando la nostra identità di abitanti
della Cordigliera".
Inutilmente la Compañía de Tierras ha detto e ridetto che
il solo scopo dei recinti è quello di tutelare l’integrità
dei territori, e che i cittadini possono richiedere l’accesso a laghi
e fiumi delle sue tenute. I mapuche non ci sentono. E neppure Carlos Maestro,
ex governatore della provincia del Chubut, il quale ha scritto su ‘Viva’
(rivista del ‘Clarín’): "Comprano le nostre terre, le migliori.
La comprano senza vincoli e ostacoli. Quando i Benetton comprano un milione
circa di ettari significa che in Patagonia comprano tutto. Nelle loro
terre hanno fiumi, laghi, piante, minerali, tutto… Me li immagino, i
Benetton, che raccontano ai loro amici italiani come hanno potuto comprare
un milione di ettari senza alcun problema".
Quale sarà il futuro della Patagonia con queste premesse? Quali
accordi potranno portare a un maggiore equilibrio tra le ragioni economiche
della Compañía e il risentimento storico dei mapuche? Nessuno
azzarda ottimismo. Al contrario, anche tralasciando la causa dei Curiñancos,
si profilano altre ragioni di scontro tra latifondisti e indigeni. Molti
mapuche sono ad esempio preoccupati per lo sfruttamento minerario in atto
da parte di potenti società, attratte in Patagonia dalla scoperta
di filoni d’oro. Il 2 giugno scorso la stampa riportava la notizia che
quattro dipendenti della Inversiones Mineras Argentinas S.A. sono stati
intercettati mentre trafficavano all’interno di terreni privati. Fonti
locali riferiscono a ‘L’espresso’ che nella stessa zona del lotto Santa
Rosa sono stati effettuati una decina di carotaggi nel terreno. E anche
la Compañía de Tierras si sta dando da fare, partecipando
con il 60 per cento delle azioni alla recentissima società Minera
Sud Argentina S.A. Un capitolo finora sconosciuto che autorizza il dubbio:
non è che la causa contro i coniugi Curiñanco sia stata
giustificata dall’interesse per un terreno potenzialmente prezioso? "Al
momento", risponde l’ufficio stampa Benetton, "la società
Minera Sud Argentina prevede interventi soltanto al nord e al centro del
Paese. Certo, se spuntasse una clamorosa miniera al sud, sarebbe assurdo
rinunciare…".
Un concetto, quello del ‘rinunciare’, che la Compañía de
Tierras raramente applica in Patagonia. Al contrario le sue iniziative
sono numerose e ben finanziate. Un esempio evidente è il Museo
Leleque, a 20 chilometri dal comune di El Maitén, sorto sulla terra
della Compañía e sostenuto dai Benetton con 800 mila dollari,
ai quali vanno sommati altri 60 mila l’anno investiti nel centro studi
‘El hombre patagónico y medio’. Nelle intenzioni dei fondatori
la struttura doveva valorizzare i 13 mila anni di storia patagonica. Una
promessa mantenuta con rigorose ricerche scientifiche, che però
non hanno sedotto le popolazioni indigene. Viceversa le hanno irritate
fin dall’inaugurazione, avvenuta il 12 maggio 2000. Quel giorno lo slogan
dei mapuche era: "Non siamo oggetti da museo. Siamo vivi e vorremmo
essere ascoltati".
Un treno per Leleque
Ripristinare una stazione o chiudere una scuola?
C’è un’ennesima ragione di attrito tra la popolazione locale dei
mapuche e la famiglia Benetton. Si tratta della possibile riapertura della
stazione ferroviaria di Leleque, al momento dismessa e circondata dai
possedimenti terrieri della Compañía de Tierras. Qui un
tempo si fermava il celebre trenino patagonico della Trochita. L’idea
del governo e della provincia del Chubut sarebbe ora di recuperare tale
sosta e di inserirla all’interno di un percorso turistico regionale. "Il
problema", protestano le organizzazioni mapuche, "è che
l’iniziativa porterebbe allo sgombero di otto poverissime famiglie e alla
chiusura della scuola numero 90, dove mangiano e studiano 18 bambini".
I mapuche hanno dichiarato che, nel caso il piano decolli, resisteranno
con ogni mezzo, e hanno pure detto a chiare lettere che ritengono in parte
responsabile della situazione la Compañía de Tierras. Una
posizione condivisa dal giornalista argentino Sebastian Hacher, il quale
ha scritto: "Nell’opuscolo del progetto si parla di ‘un vero viaggio
alle origini che parte della stazione di El Maitén fino a Leleque,
dove si potrà visitare il museo omonimo e degustare una tipica
grigliata di carne della Patagonia nella tenuta dei Benetton’. Inoltre",
continua Hacher, "nel servizio è previsto per il passeggero
un biglietto unico: treno, entrata al museo e pranzo nella tenuta italiana.
La riprova di quanto siano integrati gli interessi della Compañía
e quelli statali".Da parte sua, la Compañía de Tierras
ha sempre replicato che le sorti delle famiglie e della scuola di Leleque
("Dove partecipiamo alle spese della mensa e dell’edificio",
dice l’ufficio stampa Benetton), non sono di sua competenza: riguardano
invece lo Stato argentino.
Da Londra a Treviso
La famiglia Benetton ha acquistato la Compañía de Tierras
del Sud Argentino S.A. nel 1991. La storia di questa società e
delle sue terre è però ben più lunga.
Nel 1889 viene fondata a Londra la società The
Argentinian Southern Land Company Ltd, che ha sede in Inghilterra e uffici
a Buenos Aires, per gestire le proprietà dei latifondisti stranieri.
Nel 1975 la società Great Western acquista il
pacchetto azionario della Argentinian Southern. In quel momento, titolari
sono le famiglie argentine Menéndez, Hume, Paz e Ochoa.
Nel 1982 si decide di eliminare il nome inglese e cambiarlo
in Compañía de Tierras del Sud Argentino S.A.
Nel 1991, infine, subentra la famiglia Benetton, che
attualmente possiede la società attraverso la olandese Real Estate
N. V., a sua volta controllata dalla Edizione Holding spa.
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